Come era prevedibile già in partenza, il cortometraggio scritto e diretto dal regista Gabriele Muccino per promuovere all'estero la Calabria, sta sollevando un nugolo di opinioni soprattutto contrarie.
Prima di spingermi nella valutazione del corto, mi preme dire che questo è stato voluto caldamente dalla defunta governatrice Santelli ma non solo da lei, in quanto autorizzato dalla commissione regionale. Pertanto, le accuse mosse dagli avversari politici della ex presidente sono assolutamente infondate. Mi amareggia molto constatare da quanto emerge dalle varie analisi lette, che la questione politica ha preso il sopravvento sull'interpretazione di un lavoro concepito per essere condiviso da tutti, in quanto testimone di una terra e delle sue radici profonde. Mettendo da parte l'approccio politico al lavoro di Muccino, mi soffermerei il tempo necessario sulla poetica del regista e da qui renderei spontaneo il passaggio al mio pensiero sul corto in questione.
Lasciando stare le polemiche riguardo ai costi eccessivi per un risultato di otto minuti scarsi, trovo che la scelta del regista a cui affidare l'impegno sia stata non ben calibrata. Muccino, da regista e da autore innanzitutto, tende a sottolineare nei suoi film l’impossibilità di dialoghi veri non solo tra generazioni diverse ma persino all'interno dei singoli individui.
Viene spontaneo quindi chiedersi cosa sia l'anima per Muccino.
Per chi avverte lo sradicamento da ogni realtà causato dalle logiche distorte dell'economia capitalista e consumista, l’anima è il non so, ovvero il luogo in cui coesistono ma non combaciano grumi di vissuto. È un affastellarsi di memorie legate a situazioni e a volti parzialmente definiti e che rimangono pertanto nel vago. Una Regione come la Calabria che ha di che vantarsi a iniziare dalla sua profonda e atavica umiltà, avrebbe avuto bisogno di uno spot di slancio e non di repressione e reclusione nell'antro della memoria. Quindi di un regista capace di estrapolare propositamente dal background culturale che contraddistingue questa Terra, quel motivo in più che le avrebbe consentito di sbilanciarsi in avanti fino a entusiasmare anche quei turisti reticenti, impressionati dai soliti e superficiali cliché che hanno sempre penalizzato questa terra al punto da non farla rientrare nelle grandi rotte vacanziere.
"Calabria, terra mia" è mortificante e non aggiunge al titolo già di per sé penalizzante la rappresentazione di una regione che è una terra vera e propria per identificazione storico-antropologica, che solo un mago sarebbe riuscito a proporre nella sua esaustività in una manciata di minuti. Ho ammirato alcuni anni fa lo spot di promozione della regione Marche che vedeva in azione il grande attore Dustin Hoffman. Era uno spot che non si prefiggeva lo scopo di definire, bensì di evocare bellezza e suscitare emozioni legate alla regione.
Io personalmente, più che offensivo, trovo il corto di Muccino grottesco e per i richiami a quelle atmosfere fine anni Cinquanta che traspaiono dai racconti dei nonni, legati a una generazione formatasi sulle impronte di Claudio Villa e Domenico Modugno e di Domenico Modugno c'è davvero tanto in questo corto! A iniziare dal titolo che richiama la sua celebre canzone e il flusso di emigranti che si spingevano dal nostro Sud provinciale e rozzo verso l'industrializzato Nord.
Mi sorge il dubbio che Muccino la Calabria non l'abbia colta né inquadrata, né temo, abbia lavorato a questo corto con slancio ed entusiasmo. C'è da dire che lui, da Esistenzialista contemporaneo, sarebbe poco adatto a fare promozione di un territorio, in quanto la sua poetica è portata a sconfinare nello sfumato, nella dissoluzione inspiegabile del tutto. E in ciò vi è la negazione di ogni suo proposito di partenza. La Calabria è una terra forte, che ha un tracciato evidente e un corredo di misteri che affascinano per quel quid in più che non deforma, ma avvalora le sue molteplici identità. Di questo nulla viene fuori dal cortometraggio, se non un affaccio informativo affatto narrativo sugli agrumeti qui coltivati e sul bergamotto. Assenti i riferimenti al cedro, quasi solo gli agrumi su accennati enunciassero la caratteristica identitaria di questa terra.
Alcuna traccia e alcun riferimento risultano rivolti ai microclimi, né ai variegati affacci interni. Alcun cenno alle grandi figure mistiche e filosofiche che in questa regione hanno avuto i natali. Ma lasciando stare pure questo, a non convincere è proprio il testo, ad iniziare dall'ingenuo stupore della forestiera che sembra cascare dalle nuvole quando il fidanzato Roul le cita e mostra il frutto del bergamotto che lei non conosceva. A questo si aggiunga la dimensione troppo costruita della scena dei compaesani. Buona la recitazione dei protagonisti. A lasciare perplessi è anche la scelta del colore giallo di sfondo alla narrazione, una tonalità che invecchia e fissa in un tempo antico l'intero lavoro.
Insomma, senza voler calcare troppo la mano, emerge un Muccino veramente svogliato. La scelta a mio parere è stata sbagliata a monte. A ogni professionista serio il suo lavoro specifico e la specificità di Muccino è orientata verso altri linguaggi e narrazioni che non siano di operazione pubblicitaria e promozionale. E intanto le polemiche continuano.