Noi siamo le cose che indossiamo e ci fanno esistere. La materia è un velo aggiunto che ci completa e ci identifica.

Un cencio, un pezzo di carta sul tavolino, la cicca di una sigaretta posata da tempo sul tavolo sono già di per sé soggetti di una narrazione che sconfina nella sensibilità dell'osservatore e diviene presente. Il presente è traccia che si fa incesellamento e sistemazione all'interno della memoria, per divenire esso stesso frammento di un tutto e storia. I sentimenti che trovano voce nella sensibilità sono di per sé stessi universali e abbracciano ogni passaggio contingente, individuale o storico che sia. Dare voce alla sofferenza significa pertanto ricondurre alla vita pagine di un libro infinito mai interamente scritto, ne' totalmente esplorato, che ha per indice i rinvenimenti che noi all'interno di esso operiamo.
Nella nostra società in cui tutto assurge a sostanza frammentata, basta un titolo per accendere una candela nel mesto silenzio di una cappella al cui interno i banchi vuoti parlano di assenza e presenza contemporaneamente. Ci sono silenzi che abitano il buio e silenzi che emergono dalla cecità di un panno fitto, aspettando che qualcuno li chiami per nome e li tratti.
Nel pieno inverno la giornata della Memoria che trae ispirazione dall'Olocausto degli Ebrei diviene agli occhi di tanti, di alcuni di più, emblema dei genocidi di ogni epoca e di ogni popolo, aprendo scenari sconfortanti sul presente e interrogativi nebulosi sul futuro. Sono tante le iniziative proposte per rievocare e commemorare questo giorno animate da una speranza sempre più fioca a detta degli ultimi sviluppi della cronaca che non risparmia casi di superiorità razziale in ogni angolo del pianeta. Infinite restano le domande, mentre scarse sono le risposte anche tra gli artisti che di petto si trovano a trattare questo argomento. Pietro Bonavita, pittore e installatore e scultore, è sicuramente tra coloro che, col loro modo intelligente di adoperare il proprio genio, sanno fare la differenza.
L'arte concettuale per Pietro è creta e materiale plastico su cui va a incidere il proprio personalissimo messaggio che, partendo dalla contingenza di un dato, si erge a contenuto metastorico. Versatile nel suo linguaggio espressivo non sempre di facile approccio, l'artista Pietro Bonavita affronta il tema della sofferenza dell'Olocausto ebraico attraverso tutti i canali non solo visivi e intuitivi, ma anche scientifici e simbolici in un collage di pulsioni che arrivano direttamente all'osservatore coinvolgendolo in tutto. Numeri, simboli, sciarpe e resti di vestiti sapientemente legati tra loro e incastonati in un mosaico che parla di morte ed emana un odore tragico sul quale si fa avanti un interrogativo volto ad aprire un varco nel cuore di chiunque. È tagliente l'opera di Pietro. È un bisturi che trafigge l'essere umano in empatico accordo con chi ci ha trapassati e urla giustizia al presente. Giustizia per le anime sconosciute in Africa per mano di una politica genocida senza nome, per i morti che furono delle Foibe e di cui a stento si tende a parlare. Per la popolazione armena e degli Indiani d'America e per le vittime di Stalin e Mao.
Ogni numero impresso sulla tela è un individuo. Ogni individuo è un‘anima che dà voce ai tanti che non ce l'hanno in una società, quella attuale in cui la voce esiste se si è disposti ad ascoltarla al di là delle bandiere, dei luoghi comuni fasulli e del finto altruismo, quest'ultimo una brutta maschera, che oggi brilla più che mai. Che siano i cenci allora, a ricordarci che di un'umanità si parla, di quella stessa umanità capace di urlare ai suoi figli e pronipoti di imparare dalla sofferenza e di non far capitare agli altri ciò che ha patito. Abbiamo ancora tutti da imparare e gli Ebrei non da meno, affinché l'interrogativo di Pietro non resti lì sulla tela come uno schizzo mortificante, ma tracci una strada verso un orizzonte nuovo e sereno per tutti.