Sulla realtà virtuale ci sarebbe da scrivere pagine profonde.
Nonostante l'appiattimento a cui ci induce, sarebbe da stendere pensieri e riflessioni più che sul virtuale, sui comportamenti prima sconosciuti che portano l'uomo a confrontarsi con questa nuova realtà. Studiare l'uomo in rapporto al digitale significa forse recuperare isole di pensiero florido nel pantano deformante in cui siamo immersi. È un nuovo approccio alla psicologia e alla sociologia che apre a quesiti e paventa scenari nuovi sull'interazione uomo-tempo.
Incominciamo col dire che la realtà virtuale sembra aver dato a tutti la possibilità di esprimersi, cosa prima resa difficile dall’inesistenza di mezzi tanto veloci che potessero traghettare il pensiero di ciascuno altrove, porgerlo a persone impensabili e sconosciute. Oggi è diverso. Nelle liste dei contatti social può comparire il grande scienziato mondiale insieme al negoziante di fiducia. Si diventa amici senza esserlo, a volte semplicemente per figurare senza merito alcuno e quindi senza alcun credito. Serge allora un’osservazione alquanto spontanea e consequenziale rispetto a quanto ora espresso. Un tempo c'era l'uomo e non c'erano i mezzi, oggi ci sono i mezzi ma manca il pensiero come sostanza e la sostanza del pensiero. Qualcosa dovrebbe allora suscitare riflessioni accurate riguardo alla formazione dell'individuo e alla sua traslazione in altre realtà vere e astratte. Forse l'uomo per raggiungere e misurarsi con altri continenti di pensiero non ha bisogno che di se stesso, di espandersi tramite le proprie capacità, ancora per la maggiore sconosciute, che lo farebbero essere qui e tra altre persone lontane e irraggiungibili, così come su altri piani di esistenze astrali e multiversali.
Se pensiamo ai voli pindarici dei grandi poeti, così come all'esperienza magico sacrale degli Sciamani che hanno introdotto il Rito tra le attività umane, allora forse possiamo comprendere che oggi ci sembra di andare oltre noi, ma in realtà non riusciamo neanche ad attraversare noi stessi. Siamo nel limbo, sospesi in una bolla di sconcerto e di non definito, molto diversa dalla nebbia dei poeti maledetti e dalle suggestioni pittoriche surrealistiche. Siamo in un tempo che a giusta ragione definiscono sospeso e io pure, ma non in rapporto al Coronavirus. Questo tempo sospeso c'era già prima, lo abbiamo creato pian piano noi, affidandoci sempre con maggior trasporto al virtuale che ci porta ad essere lontano sia dalla vita concreta, che da quella immaginativa e onirica che è dentro di noi e ci eleva spiritualmente. Il tempo allora cos'è se non la misura di ciò in cui realmente siamo e con cui compariamo a noi stessi traghettati dagli impulsi dell'anima? Ecco allora che oggi ci sembra di essere ovunque e pertanto invincibili, ma in realtà non siamo da nessuna parte perché non siamo più noi, e vaghiamo alla ricerca di nuove definizioni. Il Coronavirus allora, è il segno di un malessere esplosivo e indotto da un sistema che ci ha sradicato da tutti e dal nostro interno. La cosa triste e’ che noi l’autorizziamo a governarci con macchine che dovrebbero essere il tramite e non il fine di quella sacralità teogonica che abbiamo smarrito nei tempi e che sta a noi recuperare concentrandoci sul nostro mondo il quale e’ di tutto accesso a tutto. La chiave del mistero di tutto.