Non sempre quel che ci accade va considerato come vero. La distanza temporale alimenta il distacco dalle esperienze delle quali molte si sono fatte ricordo. Altre, semplice contenuto di memoria. Altre ancora, mattoni su cui procediamo.
Le fasi di passaggio le releghiamo generalmente all'autunno e fissano le esperienze nella memoria. Le chiamiamo esperienze anche se di sperimentabile non rimane più nulla. E allora si afferma la fase di chiusura della trasformazione che porta a essere in contatto col materiale interiore ormai digerito e che si lascia guardare come un manichino nudo e appeso al soffitto di una vetrina.
Diventano luce anche i ricordi. Luce abbagliante sul panno nero del tempo. Ogni visione appare in noi una stella limpida e screziata di vari colori. A ognuno di questi è legata a doppio filo un'emozione.
Sogno spesso il mio balcone a settembre. Lo sguardo che disegna l'orizzonte del mare invisibile da casa mia per la distanza. I contorni dei palazzi e l'aria frigida di primo mattino. Le tasche vuote delle sporadiche passeggiate di prima mattina sul lungomare, mentre inquadrature certe mi fissano dai giardini pubblici al di qua del Barion e che sostengono l'imponenza dei grandi palazzi liberty. Non so come sia ora quella zona. Manco da diversi anni, e da quella che ora in piccoli e imperfetti riquadri è la Bari che ho vissuto di più e che mi conduce alle mie atmosfere umorali e sonnolente di quando i cumuli gonfi di pioggia e grandine soffiavano verso dai Balcani, alleviandomi dal peso dell'indecisione.
Erano gli anni Novanta. C'era vitalità e socialità spesso deviata da esperienze da cui tanti non si sono ripresi più. In via Abbrescia i locali erano pieni di ragazzi dalle aspettative musicali importanti. C'era serietà allora e voglia di scambiarsi i propri traguardi raggiunti. Di improvvisarsi e sperimentare più generi da esportare oltre il confine nazionale. Chi ce l'ha fatta e chi no. Chi è rimasto bruciato e chi è volato in alto nel percorso di studi. A differenza del periodo dark e new wave che raccoglieva il disagio soprattutto sociale dei ceti popolari, il rock anni Novanta era seguito in prevalenza da matricole e studenti universitari che puntavano su un concetto di black death assoluto.
Ritorno a pensare a quegli anni perché come un buco si è poi andando approfondendo da allora in avanti. Un cratere che ha mangiato il tempo di poi, dettato per tutti noi giovani a livello globale da aspettative deluse e da un senso di solitudine che ha aperto strade e solchi tra le persone.
Prima di questo tempo c'eravamo ma eravamo fatti mali. Con una ferita sanguinante nell'anima che ci rendeva superbi o al contrario disadattati. Forse per quest'ultima non qualità, in grado di creare. Molti di noi sono figli degli anni Sessanta, in periodo indaco, e sono diventati ragazzi con un piede nelle pratiche meditative e con l'altro nella fossa della dipendenza. Non sempre la sperimentazione curiosa e letale prendeva il sopravvento. Spesso c'era il bisogno di raggiungere una casa, di costruirsela perché la roulotte su cui viaggiavamo era ballerina e inaffidabile.
C'era molto negli anni Novanta e c'eravamo noi con la testa per aria. C'è una specie di corrispondenza che si ripete a ruota e accomuna tutti i periodi e le civiltà della Storia. Negli anni Novanta respirava la Scapigliatura della Milano di un secolo prima. E c'era Milano nei miraggi di noi giovani di allora e ancora di più Londra e soprattutto Berlino. Quest'ultima attirava e tanto perché immagine di una nuova libertà che però ha tolto molto a tanti e soprattutto la vita. Era caduto da poco il muro e negli '92-'95 Berlino era la meta preferita di chi voleva buttarsi tutto alle spalle e contribuire per strada alla rinascita e ridefinizione di una realtà che aveva convissuto con brutali paure e barriere.
C'erano ideali e tanti spettri ad ogni angolo. Eravamo fragili, distaccati ma con sogni da condividere. Poi con Internet e i cellulari a portata di mano si è aperto il mondo e noi tutti ci siamo cascati dentro.