A rendere veritiera l'affermazione secondo cui la visione parte da dentro è la certezza che le immagini partorite nel buio dell'interiorità hanno una loro luce, altrimenti non comparirebbero. Come ammette la psicanalisi junghiana, anche l'interiorità ha una sua luce che rende possibile alle immagini di mostrarsi. La vista interiore solo così sviluppa appieno il suo significato.
Tutto ciò che è figlio del processo di creazione ha una sua luce che ne definisce i contorni. L'arte è frutto di una creazione interiore poi trasferita all'esterno e qui entra in ballo il mistero della trasmissibilità. Come possa essere resa l'arte in base agli strumenti propri dell'artista non tanto conoscitivi, quanto sul piano di abilità e di estro è il dilemma.
Prima della creazione e prima ancora del concepimento c'è la visione. Un flash che rapisce e che ci porge come fosse una illuminazione improvvisa, la nostra interiorità. La visione è un messaggio che si presenta a noi nelle vesti di simbolo che ha una sua valenza estetica. In base a questi connotati non può sfuggire. È una forma di incantamento che risale dalle nostre viscere e inaspettatamente. La si può tradurre in poesia, musica, arte rappresentativa... ogni artista sceglie la propria via, ma è comunque un messaggio o rappresentazione.
Ciò che risale da dentro non ha coordinate spazio temporali. È sradicato da tutto ma ha in sé tutti i riferimenti spazio temporali possibili. Ci appare come presente ma sta a noi capire a quale momento e mondo si leghi e non sempre ciò è possibile. Allora subentra la necessità di convertirlo in opera d'arte e attraverso questo processo torna al soggetto più facile interpretarlo. L'esternalizzazione di una visione è altro, capiamo bene, dalla rappresentazione di una visione che si fa presente ma non è il presente. L'esternalizzazione è la traslazione fuori di sé che l'artista compie e in questa operazione molto si perde e qualcosa si acquista di inaspettato. L'imperfezione risiede qui e pertanto è difficile per il suo creatore valutare equamente l'opera. Ciò che va via e quanto si acquisisce non sono mai valutabili in termini di confronto. L'opera costruita è come una brace che spoglia attraverso il fuoco e converte in fumo quanto evidentemente non potrebbe che scomparire, lasciando alla base i tizzoni che brillano e incantano la vista portandoci a sognare.
Se il sogno è recuperare quanto da noi lasciato che torna a visitarci attraverso un linguaggio simbolico, altro è la visione che parla in termini ermetici della nostra vera sostanza e identità.
Quando si parla di visione viene spontaneo ricondursi a William Blake il poeta artista inglese vissuto tra Neoclassicismo e Romanticismo.
Disgiungere la visione convertita in opera pittorica dalla poesia è un'operazione errata almeno per quanto riguarda le sue creazioni. Entrambe, poesia e pittura, si compensano e l'una sopperisce alle carenze dell'altra o meglio, ciascuna delle due chiarifica quanto dall'altra lasciato nel vago. In realtà la completezza come esaustività compiuta non può esistere perché l'opera che si definisce nella scena di uno spazio tempo lascia aperti svariati margini e questo non è per l'opera che splende senz'altro un limite, ma motivo di ulteriore apprezzamento.
Blake solleva una questione al di là di tutti gli svariati temi da lui toccati e che spaziano dall'ontologico metafisico a quello propriamente teologico. La differenza tra visione interna e visione esterna. Se la prima è propria dell'artista, la seconda è un'epifania o ierofania utile al santo o all'iniziato. Il visionario, come è stato definito Bkake, è colui che sente dentro di sé la spinta a convertire quanto vede interiormente in opera. L'interno invita a porgere all'esterno. L'esterno invita a entrare nell'interno chi deve intraprendere un altro cammino, di abbandono della dimensione profana e di innalzamento della propria spiritualità verso il Sacro.