I fari dormienti sono sempre esistiti. Sono i moniti che lo splendore dei tempi trascorsi ci lascia, affinché i moderni ripartano da lì per recuperare i fili gloriosi spezzati o dispersi. È più facile che si rintracci e recuperi il filo disperso, che invece si riporti in vita il filo spezzato. Il nodo è una cicatrice che devia il corso delle cose verso un orizzonte sbagliato o non sempre roseo.
Il pudore, il fanciullo sono tracce di una bellezza sopita che i classici stonando nel coro del tempo, vorrebbero riportare in vita. Sono lo strascico del vecchio espresso in termini dispregiativi perché di ostacolo al nuovo tempo. Ogni epoca che parta e urli a gran voce le sue istanze di ribaltamento o si proponga di chiudere serratamente le porte al passato, punta a rivolgersi a una società matura a recepire i suoi propositi, e nuova. È quanto accadde sul finire dell'Ottocento quando, durante la preparazione al salto nel nuovo secolo, i responsabili e gli interlocutori dei nuovi messaggi furono proprio i giovani battaglieri e ormai privi di ogni riferimento culturale serio. Il nuovo spesso viene confuso col giovane, ma negli ambienti politico sociali il nuovo è colui che ha smarrito il proprio carico di passato che egli rifiuta prontamente, a oltranza, di recuperare. Il giovane invece è colui che cammina e orienta i propri passi sulle orme lasciate dai suoi predecessori conosciuti personalmente o assaporati attraverso letture importanti e formative. Sono le orme dei maestri a fare luce, ad assumere fattezze di faro e che proietteranno ombre di luce sul disastro che si va profilando.
I vestiti con lo strascico dietro e con l'effetto tocca e non tocca determinano un'immagine della donna agli inizi del nuovo secolo che si lascia disorientare dagli avvenimenti. Che avverte aria di tempesta e che è lì in un angolo a soffrire in silenzio. È una donna quella inizio secolo che vedrà piano piano i suoi sogni sgualcirsi, intenta a ricomporre i pezzi del suo cuore per offrire una mano concreta alla ricostruzione dell'Europa andata in macerie.
Ritorna l'immagine di Ginevra, il fantasma bianco, di luce in rapporto alla fine della pace nell'era straordinaria arturiana. È come se la donna primo Novecento camminasse sospesa, una funambola sull'orlo del precipizio, che ha cura di salvaguardare i suoi ideali di bellezza sostenuti dalla sua contemporaneità. È una donna sognante e segnata da grandi tumulti interiori come "La mite" di Dostoevskij sa ben illustrare. È portata all'introversione e ai luoghi riparati, nella speranza di proteggere se stessa e i propri doni.
La bellezza agli inizi del Novecento definisce un tempo nel tempo. È la decifrazione di un importante passato che si adagia come una stola di ermellino dorato sulle spalle dell'epoca. La luce, il lusso cercano di ridondare altrove, sulle coste lontane quello che l'Occidente vive e di lanciare segnali di fratellanza e di paura prima che tutto crolli.
La bellezza primo Novecento è un ponte slanciato nell'oscurità perché ci si sente ascoltati da qualche altra parte, nell'altrove che profuma di Oriente ed esotismo. Sono tanti gli elementi che accomunano le donne agiate europee a quelle dell'aristocrazia cinese e giapponese. Il bisogno di salvaguardare lo scrigno prezioso del cuore, prima che naufraghi e tocchi l'abisso. Gli inviti, i salotti pomeridiani sono occasioni di confronto e conforto prima che la solitudine sbaragli il cuore delle nostre madri. La cura, la sintonia, il mondo delle confidenze esprimono il bisogno di salvaguardarsi e di raccomandarsi a un mondo bello, affinché non venga sottratto. Affinché non svanisca e con lui, loro.