In esclusiva per "il Centro Tirreno.it"
Sono pochi coloro che, cinepresa in spalla, seguono il profilo dei luoghi carpendone il fascino e la sacralità. Ancora più rari oramai, i professionisti del settore capaci di rapire alle immagini in corsa un dettaglio che racchiuda l'essenza, l'anima di ciò che vogliono raccontare.
Pupi Avati ancor più che maestro di cinema, è un vero e proprio maestro di vita, Egli fa dell'umiltà la forza motrice dell'esistenza, lo strumento di gioia con cui attingere alla sorgente divina.
“Maestro Avati, come nasce l'idea del film ‘Le nozze di Laura’?”
“Nasce dalla frequentazione del Vangelo che leggo ogni sera. C'è all’interno delle Sacre Scritture l'episodio delle nozze di Cana che mi ha colpito profondamente per la sua semplicità e diversità dagli altri racconti del Vangelo. Ho cercato d’immedesimarmi nello stato d'animo di quel giovane, nell’emozione pulita e sincera che deve aver provato la sera del matrimonio. Mi ha impressionato l'atmosfera di festa, così diversa dalle altre, solenni, che permeano i sacri racconti.”
“Del film ‘Le nozze di Laura’ colpisce l'anima dal respiro ancestrale, dal carattere sognante. Qual è pertanto, il Suo rapporto con la Fede?”
“È il rapporto di chi vuole assolutamente credere che esiste una giustizia al di sopra delle nefandezze umane, della giustizia umana alquanto limitata e imperfetta, causa di sofferenza e infelicità. E questa giustizia superiore non può che ricondursi a Dio ed essere Sua manifestazione.”
“Gli aranceti della Calabria hanno solcato la Sua memoria. Cosa hanno di così speciale?”
“Quel senso di sacro, così come gli uliveti, per il fatto stesso di essere depositari di un fascino antico, misterioso, arcano. Mi ha colpito l’agrumeto di Rocca Imperiale, dove ho girato alcune scene del film, perché con gli zampilli d'acqua lì presenti, mi appariva pulsante di vita.
“Qual era la Sua opinione della Calabria, prima che girasse il film?”
“La ritenevo una regione fuori dal mondo, quasi irraggiungibile. Una terra che respinge, arroccata in se stessa, in un tempo lontano dal presente.”
“Cosa è cambiato in Lei dopo il film nel rapporto con questa terra?”
“Prima consideravo la Calabria una terra che va aiutata, liberata dall’emarginazione di cui è vittima a causa dello Stato, dando visibilità ai suoi aspetti genuini, sani, buoni. Dopo il film mi sono capitate tante vicende spiacevoli che mi hanno portato a rivedere il concetto che mi ero fatto sui Calabresi che ora non esito a definire responsabili della distrazione dell'intera nazione nei loro confronti.”
“Quali i Suoi progetti per il futuro?”
“Rendere visibili attraverso il racconto cinematografico i passi del Vangelo più salienti, partendo dal Discorso della Montagna in cui si parla del riscatto nei Cieli dei disperati, dei bisognosi, degli emarginati, delle vittime delle ingiustizie sociali, per arrivare alla parabola del Figliol Prodigo.”
“In conclusione, che cos'è per Lei la Bellezza?”
“La Bellezza è per me sinonimo di bontà. È buono ciò che è bello, giusto e viceversa. La Bellezza è la grande riconoscenza dell'uomo verso la magnificenza divina. Oggi la gente ha perso il contatto, l'approccio con la Bellezza, come dimostrano i tanti concorsi che promuovono corpi in serie su una passerella. La Bellezza, per come la intendo io, è nella semplicità, in ciò che oggi viene ignorato. La protagonista Laura non riflette i canoni estetici della donna moderna, eppure ha compiuto un miracolo. Quello di tenere intrappolati su di sé gli sguardi di quattro milioni e mezzo di telespettatori che hanno seguito quella sera il film.”
Volutamente ometto di chiedere al maestro Avati se ha intenzione oppure no, di ritornare in Calabria, convinta che da qualsiasi luogo i Suoi Lavori continueranno a emozionare ancora e a raccontare quello che è in assoluto il miracolo più grande. La vita stessa.