La luce come coscienza nelle dinamiche progressive dell'esistenza. Gaetano Scicchitano e la sua opera ''Le incerte vie dell'essere''
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La luce come coscienza nelle dinamiche progressive dell'esistenza. Gaetano Scicchitano e la sua opera ''Le incerte vie dell'essere''

Gaetano Scicchitano

Interviste e Recensioni
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La vita non è che un percorso proteso verso l'Alto filtrato dalla coscienza sotto forma di luce. Ed in questo percorso dettato dalla costante ricerca di continue riconferme al proprio Sé, trova significato ed espletamento la Bellezza che consente attraverso il mondo, di rileggere e reinterpretare la propria interiorità.  

La luce come coscienza nelle dinamiche progressive dell'esistenza. Gaetano Scicchitano e la sua opera ''Le incerte vie dell'essere''
La luce come coscienza nelle dinamiche progressive dell'esistenza. Gaetano Scicchitano e la sua opera ''Le incerte vie dell'essere''

 

La vita è dinamica narrazione orientata verso la luce. La luce è sostanza del nostro vivere e per chi ravvisa le oscure contraddizioni dell'esistenza umana in generale e della propria, essa assume carattere di sostanza. Questa, associata all'idea di consistenza, riempie i vuoti di chi è capace di cogliere la propria piccolezza al cospetto dell'Assoluto supposto che regna e sovrasta il Tutto.

Il disorientamento è lo stato di ogni nascita che ripetutamente si verifica nella vita scandita da diverse tappe di quello che appare un interminabile viaggio. Il porsi domande e l'attendere risposte che non arrivano ma che richiedono crescenti sforzi in chi si apre consapevolmente alla vita apprezzandone i suoi tratti dinamici, connotano la sensibilità dell'artista. Sensibilità poetica riscontrabile in ogni espressività e persino nella ben strutturata letteratura di autoanalisi capace di rilasciare o suggerire immagini musicali e pittoriche.

È questo il caso dell'opera ''Le incerte vie dell'essere'' dello scrittore sociologo Gaetano Scicchitano, che sarebbe misero annoverare nella saggistica asettica e prosastica, in quanto pregna di quella intelligenza emozionale che consente non solo di cogliere gli aspetti più sensibili della realtà ma anche di interpretarne i contenuti in chiave pragmatica.

C'è tanto in questo testo che merita di essere considerato e apprezzato. Esso esprime con quel delicato sentire che lo contraddistingue, la necessità di ergersi dall'esperienza soggettiva a contenuti assoluti e rasserenanti che animano le interiorità di chi avverte dentro di sé la presenza del fondamentale mistero dell'esistenza. Per l'autore Scicchitano è impensabile la concezione di un universo di cui ogni singola particella fosse un corpo solo e staccato da quella trama di rapporti che identifichiamo come Anima Mundi. Il sentimento universalistico che permea la sua opera conferma lo slancio verso l'Assoluto, slancio che si respira già dal PRIMO CAPITOLO nella forma di connaturata ricerca verso la luce che muove i passi di tutto il testo e lo conduce. La progressione dinamica della narrazione procede con un andamento anche sul piano dell'ampiezza spaziale.

Gaetano si pone dalla prospettiva di chi è nudo e privo di qualsiasi preconcetto dinanzi ad ogni incontro col nuovo che cataloghiamo dentro di noi come esperienza. Egli avanza interrogandosi nella scacchiera del vissuto che lo richiama impegnandolo in una visione concreta del reale. Non si avverte traccia di competizione né di disturbante antagonismo fra i singoli tasselli che compongono la rinnovata soggettività di Gaetano che con determinazione porta avanti il confronto tra il sé e il mondo con nuda umiltà, nella speranza di dare quelle risposte proprie dei grandi uomini che hanno conferito valore all'arte, come alle Lettere e altresì alla Scienza. Gli interrogativi assumono via via nel testo carattere discorsivo seguendo l'evoluzione della coscienza che mano a mano assume forma e fattezze nitide sgusciando dall'alveo della soggettività, per prendere coscienza della propria identità nel confronto col sociale. È in rapporto agli altri che l'individuo si fortifica e si connota sulla base di un confronto dialettico che appare qui nel testo in chiave discorsiva composita, già dalle prime pagine. Forte dell'impostazione culturale filosofica contemporanea e altresì antropologica, Gaetano si muove spedito sulle tracce del suo raccontare, sottolineando l'importanza che per lui ha lo sviluppo, partendo dal privato soggettivo degli argomenti. La progressione dinamica procede con la rivisitazione particolareggiata del suo trascorso esperienziale in cui l'individuo è portato al confronto con gli altri che costellano il reale. Ed è proprio dall'interazione con gli altri che l'Universo introspettivo dell'individuo prende forma riversandosi nel tessuto sociale. Nel TERZO CAPITOLO l'autore affronta l'ingresso nella maturità e qui si sofferma sulla sua partecipazione a quello spirito di contestazione ideologica che animò la rivoluzione culturale del Sessantotto.

L'opera include seppur tacitamente contenuti che disegnano la mappa delle esigenze culturali ed esistenziali che animarono il Novecento. Si parte dal piccolo relativo, poi in crescendo, seguendo un ritmo di narrazione armonico, l'autore conduce il lettore invogliandolo a un confronto sul delicato tema della coscienza. Lo scrittore non resta indifferente al percorso che si articola in fieri. La visuale dell'osservatore si complica ad esprimere la crescita e l'ampiezza di vedute a cui fanno da contraltare gli stati dell'essere che s'impegna a non restare indietro rispetto alla prospettiva di universalità a cui tende.

Cos'è dunque il luogo se non estensione proiettiva della propria soggettività? L'anelito di libertà è anche il motore della crescita interiore che si esprime nei termini di una coscienza capace di filtrare il privato e di relazionarlo al sociale scandagliato da un'analisi critica ben condotta. Come in tutte le anime nobili e sensibili, in Gaetano si avverte il desiderio di inclusione che cerca di agganciare l'altro e di intercettato sul piano di un rapporto dialogico equidistante e costruttivo. Non c'è alcuna pretesa di docenza anaffettiva o di didattica esposizione nei contenuti di questo testo del tutto scevro dell'ambizione di porsi in alto rispetto alla massa quindi per nulla immaginata in reverenziale ascolto. Il pubblico del sociologo Scicchitano è sicuramente selezionato e composto sul piano di un'intesa empatica che permette di accogliere i messaggi sviluppati e veicolati dal testo. L'autore si va disvelando con un'intenzione di umana comunanza che ritroviamo nei grandi poeti Primo Novecento come nel Romanticismo illuminato di cui Leopardi è l'autorevole esponente. Lo stile di Scicchitano imprime nella narrazione il proprio carattere asciutto scevro di sbrodolamenti sdolcinati, ma proprio per questo amabile nella sua sobria ricercatezza che esprime autenticità e pragmaticità. La scrittura sincera quanto riflessiva lascia trasparire una vena di nostalgia struggente a mano a mano che lo scrittore si riporta ai nostri giorni in cui gli ideali che legano l'uomo al valore delle radici vengono messi in ombra da una società caotica e contraddittoria. I cambiamenti repentini adottati nell'attualità disorientano. La nostalgia allora viene percorsa da rivoli di malinconia propria di chi coglie ma si dissocia dal nuovo assetto del mondo.

L'autore in questa opera dimostra di sapere dirigere sapientemente la narrazione impedendole di sconfinare dall'autoanalisi in una serrata autobiografia. Proprio a tal fine sa mantenere vivo e motivato l'interesse del lettore che intercetta se stesso tra le pagine che appaiono trainate da una lucida quanto consapevole indagine esplorativa. Questa è capace di aprire porte sugli interni della personalità di Gaetano ben composita e arricchita dagli studi universitari e dalle numerose letture portate avanti dallo stesso che contemplano le diverse branche della Sociologia, della Psicologia e dell'Esistenzialismo fine Novecento. Ci sono chiari riferimenti al simbolismo esistenzialista rintracciabile nel pensiero di Bachelard. La ricerca di un punto fermo, di uno snodo di partenza e di un punto di arrivo intorno a cui si avvita l'essere confligge con le teorie sulla società fluida di cui parla Baumann nei suoi testi. Scicchitano viaggia sulle sponde del calore umano confidando nel principio che questo possa continuare a nutrire al suo interno l'uomo in costante contatto con una società in cui il posto che l'individuo occupa è più importante della sua realtà interiore. Quanto sostiene Lacan viene discretamente oltrepassato dalle teorie dello scrittore Scicchitano per il quale il luogo è connesso strettamente all'essere. In questo si comprende la necessità di condurre parallelamente allo stile narrativo un discorso più nettamente poetico. La poesia profonde ogni cosa di sentimento creativo, legandosi indissolubilmente all'Alfa e Omega, al principio primo e sacro scrigno della nostra identità di esseri umani capaci di coglierlo e di interiorizzarlo attraverso l'affinamento dell'approccio estetico alle cose che filtriamo e permangono in noi. Ciò spiega la scelta dello scrittore Scicchitano non soltanto puramente stilistica di anteporre ad ogni capitolo una poesia composta da lui. È proprio grazie a questo sentimento di approccio al mondo e alla realtà esteriore e di lettura, che ridefiniamo noi stessi. Questa appropriazione della nostra identità attraverso il mondo si compie tramite la Bellezza che ci permette di passare per e di andare oltre il dolore nel tracciato esperienziale che chiamiamo vita. La Bellezza la troviamo nel CAPITOLO IV

 

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Ippolita Sicoli
Ippolita Sicoli
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Gaetano Scicchitano ''Le incerte vie dell'essere''

 

CAPITOLO I - DALL’INFANZIA ALL’ADOLESCENZA


Nascita e smarrimento

Perché mai vivo in questo mondo
con tali sembianze
nel branco dei miei simili?
Vivere, fraternizzare, amoreggiare
e riprodurre la specie
è la mia sorte?
che è anche quella delle bestie.
Altro è il mio destino:
appartengo alla specie umana
dal portamento eretto
per osservare paesaggi lontani
e, liberata dai bisogni,
per scrutare l’universo.
La mia indole
è quindi mistero di luce
negli occhi.

 

La vita è smarrimento. Lo è nelle stanze dove ogni giorno si svolge la mia vita e nella misteriosa consapevolezza di trovarmi lì sempre per caso, poiché non fui certo io a decidere di nascere in un determinato giorno, nella città in cui vivo. Mi guardo attorno e vedo che ogni oggetto è in relazione con qualcos’altro che gli è contiguo: i mobili e le suppellettili sono disposti secondo un ordine preciso, la stanza comunica attraverso la porta con altre stanze e attraverso la finestra con la massa d’aria che avvolge il mondo intero, l’aria con le facciate degli edifici e con le strade circostanti, il presente sconfina nel passato, giorno dopo giorno a ritroso, fino alla mia origine che si perde nell’oblio.

Immagino che quando nacqui nei miei occhi irruppe un lampo di luce nel quale era presente l’intero creato: una realtà che mi era sconosciuta. Quel bagliore accese in me lo stupore di vivere e la mia vita incominciò ad avanzare verso un enigma sfolgorante: la luce del sole che illuminava porzioni sempre più ampie del mondo, allontanandosi dalle tenebre, altrettanto misteriose, dell’inesistenza. Caddi però nello smarrimento e piangevo se non ero coccolato e nutrito. Dopo lo stupore iniziale, negli anni successivi quello sconcerto sembrava quasi del tutto fugato, poiché avevo acquisito la capacità di vivere senza esserne pienamente consapevole: mi muovevo in continuazione per giocare, rassicurato dal fatto che la casa dov’ero nato e i luoghi circostanti mi erano ormai noti, così come lo erano mia madre e mio padre, quindi i parenti, i vicini e i compagni di giochi.


Fanciullezza: piccole e grandi vedute

Era dolce la sera di quell’estate lontana
anche nelle vie immalinconite dai silenzi
e fiocamente illuminate dai lampioni.
Ovunque soffusa era quella pace,
anche fra le piante fiorite
e adagiate negli angoli semibui
d’un piccolo terrazzo.
Minuscolo era il ritaglio di cielo oscuro
oltre i tetti delle case
che osservavo distrattamente,
ed era tuttavia infinita quella pace serale
che al tremolio misterioso delle stelle,
alte nella buia volta celeste,
ammiccava dolcemente.

 

In quei primi anni di vita il mio sguardo si soffermava soprattutto su ciò ch’era posto in basso, a portata di infante; poi si allungò sempre più verso ciò che appariva grande, alto e distante. Ogni giorno avevo pertanto davanti agli occhi un panorama composto da uno slargo tra vecchi edifici adiacenti al porto e dalla strada che saliva verso il castello, imponente, severo e tenebroso di tetre dicerie. Non immaginavo cosa potesse esserci oltre quella veduta e non mi interessava neppure saperlo. A volte, sentivo parlare di campagna, ma di essa avevo solamente un’idea vaga. Il mondo era tutto da scoprire e i luoghi che mi circondavano erano parti di una realtà fitta e infinita come una foresta sconosciuta, fatta di edifici, strade, piazze. Di castelli posti in alto, da raggiungere percorrendo dedali di vicoli, potevano essercene tanti altri, così come ulteriori porti. L’attenzione che dedicavo ai luoghi circostanti era però piuttosto fugace e non priva di leggere e momentanee impressioni, mentre erano per me importanti gli spazi immediati dove potevo trastullarmi con i giochi.

 

Il gioco

Era gaio e rilucente l’albero di Natale
e lo rimiravo quasi felice.
L’osservavo poi da vicino:
palline, lucine, casette colorate
senza l’anima d’un gioco
erano però tristi, fisse e inanimate.

 

Lo smarrimento iniziale, immediatamente successivo alla mia venuta nel mondo, in realtà, non era stato fugato definitivamente, ma ricacciato nell’ignoto oltre le case e le strade che conoscevo e che formavano il tranquillo alveo nel quale scorreva la mia vita. La mia attenzione era infatti rivolta prevalentemente verso il basso dove l’immaginazione aveva i suoi rifermenti nei ritagli di un mondo miniaturizzato formato da soldatini di plastica, modellini di automobili, camion, aerei, barche. Su quei frammenti di una realtà fantastica mi ergevo come un dio in grado di animarlo come se a quei giocattoli donassi ogni giorno la vita. I pavimenti delle stanze erano spazi surreali nei quali potevo far circolare veicoli e inscenare combattimenti, mentre divani e poltrone si trasformavano improvvisamente in montagne. Essi erano pezzi di mondo che mi inventavo di volta in volta e che potevo manipolare a mio piacimento. A differenza della vita reale, che mi appariva incomprensibile e piuttosto ostica, quei fantastici frammenti di realtà non mi insinuavano alcuna diffidenza e pertanto li amavo.

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CAPITOLO III - IL VENTO DEL CAMBIAMENTO

Assemblee e cortei

È un dono l’intelletto,
è un dono della natura
e della storia
è un lascito magnifico
vivo nell’animo inquieto.
Lo è la parola veritiera
e lo è la parola liberatrice
delle generazioni piegate dalla sferza,
abbrutite dal lavoro,
che della sapienza non potevano gioire
e che avevano solo parole stentate.
In nome d’un riscatto intimo,
sorto dalle angustie dell’adolescenza
è alta la missione della conoscenza,
che non aspira ad alcun potere,
ed è alta la missione dell’ascolto
del dolore e della collera di un’umanità
ancora lontana da ogni redenzione.

Negli anni dell’adolescenza ciò che dal mio punto di vista appariva chiaro erano sostanzialmente le parole pregne di sicumera di chi amministrava la mia vita e quelle di coloro i quali erano in grado di condizionarmi: mio padre, mia madre e tanti altri adulti nei panni di parenti e insegnanti, oltre ad alcuni miei coetanei con il piglio di bulletti. Tale chiarezza riguardava le loro ragioni, mentre le mie erano quasi inesistenti: smarrite fra i mille perché che echeggiavano incessantemente dal fondo oscuro del mio essere; smarrite fra le nebbie che avvolgevano la mia esistenza, dalle quali la determinazione e i ragionamenti altrui affioravano nitidi e certi come le sagome squadrate degli edifici cittadini che mi sovrastavano e mi contenevano. Il mio vuoto immanente, oltre che essere segnato dalle nebbie, appariva anche contornato da un certo senso di desolazione vagamente echeggiante in ciò che dicevano le persone con le quali ero quotidianamente a contatto. Mio padre nel gestire la salumeria di cui era titolare in più di un’occasione aveva subito una piccola truffa da parte di qualcuno di cui aveva dovuto fidarsi, e quando ne parlava con la sua calma consueta, si lasciava sfuggire un certo piglio d’amarezza leggibile nella piega verso il basso che gli si formava su uno degli angoli della bocca. In quelle occasioni io non potevo fare a meno di cogliere il suo evidente scetticismo riguardo all’affidabilità di clienti e fornitori con cui aveva costantemente a che fare. In anni nei quali la società si stava modernizzando e il tenore di vita stava crescendo in maniera piuttosto diffusa, la sua esperienza di commerciante sembrava dimostrare che anche il cinismo stava aumentando. Pertanto, ai miei occhi giovanili, oltre alla prospettiva piuttosto ombrosa quanto ambigua degli amori e del sesso, anche quella della più generale convivenza sociale appariva poco entusiasmante e si presentava con i colori piuttosto smorti della desolazione.

In quell’inquieta atmosfera adolescenziale, la mia immaginazione verbale nel corso dell’elaborazione di un tema in classe un giorno coniò una frase: «l’etica deve essere frutto di scelte autonome e non una passiva acquisizione di idee prestabilite». Quell’espressione, mero esercizio concettuale che non ebbe alcuna apparente quanto immediata conseguenza nella vita reale, rimase tuttavia indelebilmente incisa nella mia memoria, senza la piena consapevolezza della sua profonda portata rivoluzionaria: distruggere tutto per poi ricostruire qualcos’altro partendo da zero.

Nello stesso periodo, quando già frequentavo la scuola media superiore fui attratto e coinvolto dalle agitazioni studentesche: un’esperienza per me del tutto nuova. La prima assemblea alla quale partecipai si svolse in un giorno di novembre, nell’aula magna dell’istituto, una sala non sufficientemente grande e quindi gremita. Tanti ragazzi erano in piedi e ammassati attorno ad altri seduti sulle sedie allineate di fronte al tavolo principale, dietro al quale avevano preso posto i membri del comitato di rappresentanza degli studenti, verso cui tutti gli occhi erano puntati. La presenza di quella massa variopinta, abbigliata con jeans, giacconi, sciarpe, e nella quale si distinguevano barbe, capigliature ricciolute e visi brufolosi di adolescenti, contrastava in maniera piuttosto stridente con l’aspetto austero della sala. Essa di solito era infatti destinata a convegni di altro genere, ai quali alludeva l’espressione imperterrita del mezzobusto di un distinto gentiluomo d’aspetto ottocentesco, collocato in un angolo. L’atmosfera era trepidante, come se quei momenti preludessero ad avvenimenti clamorosi. Uno studente con la barba scura e una sciarpa avvolta attorno al collo iniziò a parlare:

… una scuola con programmi meno obsoleti e più adeguati alla società attuale … meno latino, meno Leopardi e Manzoni, più cultura politica e pensiero filosofico del nostro tempo … Una volta usciti dalla scuola superiore dobbiamo essere in grado di comprendere il significato del lavoro, cos’è lo sfruttamento, come procede la storia, cosa succede nel mondo …

Fui subito attratto da quel modo di esprimersi. Quelle parole con quel tono sembravano protese ad afferrare riflessioni che dovevano avere un’origine lontana dagli insegnamenti metodici e ripetitivi che ascoltavo ogni giorno in classe, e altrettanto lontana da ciò che ogni giorno sentivo dire in famiglia e tra gli amici. Lo studente che stava parlando appariva fisicamente più maturo rispetto a tanti altri e doveva essere sicuramente all’ultimo anno di studio. Seguirono altri interventi ed ebbi modo di notare che anche altri adoperavano lo stesso linguaggio. Capii anche che era una peculiarità di chi capeggiava il movimento, notando inoltre che per loro era usuale intercalare all’interno delle frasi delle pause che conferivano a ciò che dicevano un tono di pacatezza e di ragionevolezza, il cui effetto era di far confluire l’intero dibattito in quell’alveo di riflessività anche quando le discussioni divenivano animose.

Nell’atmosfera che regnava in quel luogo avvertivo la presenza un’idea di fondo, lì addensata come un influsso magnetico prodotto da quella massa di giovani menti: il diletto del discernimento. Chi interveniva cercava infatti di non essere da meno rispetto agli altri nel manifestare quella capacità abbastanza evidente in alcuni, ed era l’amor proprio di ognuno a entrare in gioco. Anche se si trattava della medesima qualità sollecitata dagli insegnanti e stimolata dai testi sui quali si doveva studiare, essa sembrava aver compiuto uno strano e lungo giro, come se frasi e periodi impressi sulla carta stampata si fossero rimescolati e condensati in qualcos’altro che apparteneva unicamente a quei giovani inquieti. La dote dell’intelletto, di solito cattedratica e austera, era divenuta come per incanto materia di scambio tra ragazzi alla pari, senza alcuna pretesa di distinzione tra discenti e docenti. Essa sembrava aver varcato un immaginario confine che separava studenti e insegnanti, genitori e figli, per appartenere a questi ultimi.

Il dibattito andò avanti in maniera febbrile, ma fondamentalmente pacata, tranne alcuni momenti nei quali si aprirono dei battibecchi con delle accalorate contrapposizioni, seguite dall’invito, da parte del moderatore, a rispettare i turni degli interventi e ad evitare di interrompere coloro che stavano parlando. Nel frattempo si era deciso di proclamare lo stato d’agitazione permanente e il presidio dell’edificio scolastico. 

 

INTERMEZZO

Lumi dalle scienze

Scavare nei pensieri nascosti,
dissolvere le ombre,
schiudere vie di luce,
e la levità dell’essere
non ha più confini.

Gli occhi vedono tutto, incamerano continuamente immagini, ma di queste solo una parte diviene visione cosciente, mente il resto tende a sfumare al di fuori del campo dell’attenzione. Oltre alla messa a fuoco interna all’occhio, prodotta dalla cornea e dal cristallino, esiste infatti una messa a fuoco mentale: il pensiero confronta continuamente le immagini già memorizzate con ciò che di nuovo si presenta nel campo visivo, decidendo ciò che è interessante e ciò che non lo è. Lo fa tanto velocemente che noi non ne abbiamo mai piena coscienza, per cui osserviamo ciò che accade attorno a noi e reagiamo quasi come automi.
Queste considerazioni scaturiscono dai rudimenti di psicologia che acquisii negli anni dei miei studi universitari: certezze che andavano ad aggiungersi a nozioni che avevo già appreso negli anni precedenti, spinto dalla semplice curiosità. Ero infatti approdato in alcuni campi del sapere per motivi apparentemente banali, come il titolo di un libro capitatomi casualmente sotto gli occhi. In realtà, la mia mente non aveva fatto altro che mettere in atto i propri connaturati meccanismi di selezione, concentrandosi in maniera intuitiva su ciò che appariva particolarmente significativo.
Mi era infatti accaduto più volte che i frontespizi di alcuni libri si presentassero ai miei occhi come un’immaginaria finestra sul mondo: quello di un libro di astronomia come una soglia posta sul cielo notturno, da aprire per saperne di più sulle stelle e sull’universo; quello di un libro di geologia come strumento per scoprire la terra che calpesto, conoscendone rocce e montagne e per avvicinarmi anche al fenomeno delle scosse telluriche, per me allora abbastanza misterioso; o ancora il frontespizio di un libro di scienze o di medicina, che percepivo come una porta aperta sulla natura della specie alla quale appartengo. Mi imbattei anche nella teoria di Darwin sull’evoluzione della specie. La sua conoscenza, quasi senza che me ne accorgessi, rivoltò sensibilmente il punto di vista che avevo sulle persone che mi erano più vicine, la cui esistenza era così connessa alla mia da non ricordarmi di essere mai stato separato da loro. Parlo della famiglia nella quale sono nato e cresciuto, ovviamente.

Mio padre era un uomo piuttosto tranquillo, dotato di tanta pazienza e tolleranza, oltre che di buon senso. La sua vita era scandita soprattutto dalle uscite e dai rientri a casa, secondo gli orari di lavoro. Quasi ogni giorno si radeva la barba e di tanto in tanto si accorciava i capelli ondulati e pettinati all’indietro. A parte le sue peculiarità che mi erano così familiari, in alcuni aspetti era un uomo come tanti, così come lo era mia madre in altri aspetti tipicamente femminili: come la maggior parte delle casalinghe, era quasi sempre indaffarata in casa, spesso agitata e apprensiva. La percezione visiva che avevo di me stesso era invece limitata alle occhiate che mi davo fugacemente davanti allo specchio, ed era pertanto piuttosto vaga. La teoria di Darwin ebbe l’effetto di gettare una profonda ombra di mistero sui miei genitori e su me stesso, per cui nulla che li riguardasse o mi riguardasse appariva scontato come prima. Dunque, in quella fase cruciale dell’adolescenza, smorzatesi le fervide fantasie infantili e divenuto un passivo seguace delle schiere umane di cui facevo parte, quel mistero rappresentava per me il dato di fatto più importante e conturbante che possedevo. Quell’ombra arcana che scaturiva da cognizioni apprese nei libri, oltre che proiettarsi sull’apparente normalità della vita che svolgevo, finiva per fondersi con l’impenetrabile e sovrastante mistero dell’universo visibile di notte e rischiarato appena e solo idealmente dalle conoscenze astronomiche che possedevo.

Quei barlumi di certezze divulgate dalla scienza che raccoglievo qua e là, captati per pura curiosità, erano però frammentati e non avevano quasi nessuna utilità rispetto alla vita quotidiana. Si trattava di certezze razionali che non si collegavano a nessuno stato d’animo simile a quelli che avvertivo qualche anno prima. Esse non esprimevano alcun ideale di uomo vigoroso, eroico e giustiziere, caro alle ludiche fantasie nate in me durante l’infanzia; non erano legate ad alcun timore di essere redarguito da un’autorità, che si trattasse di un adulto o di un insegnante in particolare; ancora di meno era pensabile che fossero in relazione all’oscura soggezione che mi incutevano i sacerdoti con le loro vesti talari. Quelle certezze scientifiche erano idee neutre e asettiche, fluttuanti nella mia mente, e tuttavia avvolte da un’aura fascinosa.

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CAPITOLO IV - LO STUPORE DI VIVERE E LA RICERCA DELLA BELLEZZA


Il nulla come nume

Che ne è della mia anima?
sepolta negli abiti che indosso.
Che ne è della mia anima?
circondata, delimitata, incasellata,
definita dalle parole
e dai pensieri altrui.
È essenza ignota,
è vortice oscuro
di sensazioni inesprimibili;
mescolanza vacillante
di parole e impressioni.

 

Quale era il significato di quel nulla che si stagliava dentro di me in maniera frammentata come sprazzi di cielo fra nuvole in lento movimento, ovvero come vuoti fra le certezze del vivete quotidiano? Le abitudini quotidiane sono costituite anche da parole e frasi, pure esse sospinte da quel flusso impalpabile all’origine del vivere individuale e collettivo, in maniera tale che esse possano coniugare le intenzioni delle diverse persone che procedono in tal modo accoppiate o a gruppi. La mia tendenza prevalente era quindi di procedere in branco assieme ai miei simili. Le mie parole si univano di conseguenza a quelle degli altri, ma lo facevo piuttosto male poiché esse mi uscivano di bocca incerte come zattere gettate in un mare di possibili significati, alle quali ne erano stati assegnati alcuni della cui appropriatezza tendevo a dubitare. Annaspavo pertanto in un’indeterminatezza che mi si riproponeva di continuo nella mente come se in me fosse presente un suggeritore occulto e inopportuno che si divertiva a disorientarmi.

La mia capacità di dubitare era quindi incessante e insospettabilmente potente, tanto da venire prima di qualsiasi slancio di vivere e ragione di agire; così potente da poter essere paragonata a un dio rovesciato: una divinità negativa alla quale non poteva essere dato un nome, né attribuito un volto, quindi senza templi e senza altari. A essa non potevo tributare né onorificenze né glorie e non potevo né gioire né vantarmi della sua esistenza, diversamente dalla grande maggioranza dei miei simili che si prostravano di fronte a un dio abbastanza definito e si lasciavano amministrare da chi era deputato a interpretarlo. La differenza era che io annaspavo nei dubbi che per me erano così flebili e incorporei da lasciarmi in un costante stato di vaghezza, mentre loro erano sufficientemente nutriti di certezze da sapere quasi sempre cosa fare; e la chiara dimostrazione di ciò erano i miei amici della giovinezza che con poche esitazioni si cimentavano nel corteggiamento delle ragazze emulando comportamenti e mode.

In quella fase della mia vita, di giorno ero impegnato prevalentemente a eseguire con la necessaria diligenza il mio lavoro, mentre la sera precedevo per le vie della città e tra le sue ‒ per me dubbie ‒ attrattive con la leggerezza di chi non ha la determinazione di affondare le mani in ciò che essa offriva. Procedevo come un viandante che segue le indicazioni presenti lungo le vie; le stesse che mi avevano indotto ad abbigliarmi così come suggerivano le vetrine dei negozi e che mi avevano condotto verso un’attività lavorativa. Riguardo al desiderio di unirmi a una donna, le indicazioni ricorrenti mi suggerivano che dovevo socializzare attraverso il linguaggio: le parole destinate a unire gli esseri umani. In realtà, si trattava di quel parlottare quotidiano nel quale facevo fatica a rintracciare il senso del vivere. Dal mio punto di vista le conversazioni che intrecciavo erano quindi un inutile riflesso di quella superficie della vita nella quale ero da tempo smarrito: un riverbero della mia vacuità in cui i sentimenti tanto decantati che avrebbero dovuto unirmi a una donna erano pressoché assenti, ovvero eclissati dalle mie nebbie interiori. Mi trovai quindi a contatto con corpi femminili che erano soprattutto tali, la cui probabile anima appariva evanescente quanto lo era la mia poiché le parole di cui disponevo non mi permettevano di rintracciarla: esse, come navi smarrite nella nebbia, si perdevano inesorabilmente in un dubbioso vuoto interiore. I miei veri desideri erano inoltre alquanto vaghi. Sul palcoscenico della vita quotidiana, che non avevo mai scelto, mi muovevo di conseguenza come un individuo dalla vista annebbiata che procedeva a tentoni, ritrovandosi in luoghi mai cercati, a dire ciò che non voleva dire e ad abbracciare donne le cui attrattive più evidenti erano quelle corporee.


La dimensione universale della musica

Ha note flebili l’umiltà:
dell’umana insensatezza
è canto triste
che anche il mio animo stringe.
Ha note dolenti la tracotanza
cieca d’umiltà.
Sferza la pelle e brucia nell’intimo
il dolore remoto:
canto tragico degli oppressi.

Furtiva e poi solenne
s’innalza sul mondo la musica:
tormentosa,
dolce di mestizia,
orgogliosa di rivalsa
e sublime di speranza.
Libero dalle cupidigie,
sciolto da ogni sottomissione
e da ogni cieca ritorsione,
di armonie infinite
si commuove infine l’animo umano.

Così si ama il mondo inviso:
in ciò che armoniosamente non è,
e così ci si ama nello spirito
con lo sguardo che mai si spegne,
nell’emozione che non millanta.

 

A un certo punto della mia vita cercai la musica, pur avendola ascoltata solamente in maniera estemporanea e superficiale al pari di tante altre cose del mondo che si erano imposte alla mia attenzione attraverso le diverse influenze mediatiche. Non cercavo però una ben precisa sinfonia o un brano particolare, ma la musica in generale. Tuttavia La mia immaginazione non la concepiva per come essa si manifesta effettivamente (prodotta dai vari strumenti) quanto piuttosto nella sua essenza intangibile.

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Ippolita Sicoli
Author: Ippolita SicoliWebsite: http://lafinestrasullospirito.it
Responsabile del Supplemento di Cultura "La finestra sullo Spirito" del quotidiano online "ilCentroTirreno.it"
Docente della Federiciana Università Popolare, Specializzata in Discipline Esoteriche, Antropologia, Eziologia e Mitologia, ha partecipato in qualità di relatrice a convegni e conferenze. Ha pubblicato le seguenti opere: “Il canto di Yvion - Viaggio oltre il silenzio” prima edizione Wip Edizioni 2003, seconda edizione Ma.Per. Editrice 2014. Il romanzo “Storia di Ilaria e della sua stella” Edizioni Akroamatikos 2008. La raccolta di racconti per ragazzi “Storie di pecore e maghi” Ed. Albatros 2010. Il romanzo “Il solco nella pietra” Editore Mannarino 2012. Il saggio antropologico “Nel ventre della luce” Carratelli Editore 2014.