L'immagine epifanica di un vecchio che si confonde con l’imponenza statuaria di un tronco d’albero.
Una valigia piena di nulla, se non di una manciata di terra e una sigaretta e poi, il silenzio imperante che trascende luoghi perduti dai quali promana un'anima sofferta che ha bisogno di raccontarsi per ricondursi alla vita. È raro incrociare nei film paesaggi che non siano solo cornice naturale di abbellimento, ma parte integrante di un percorso che porti lo spettatore ad acquisire una coscienza nuova, naturale della vita, così come è altrettanto raro ascoltare una colonna sonora che segua minuziosamente la storia e dia voce alle pause di silenzio.
Racconto calabrese è anche questo e non di meno il convincente risultato di portare alla ribalta una Calabria diversa, fuori dagli schemi propagandistici che puntano a dare luce alle negatività di una regione che dovrebbe fare della sua bellezza verginale e dei suoi ritmi lenti il polo di attrazione. Sullo sfondo, gli impervi paesaggi del Pollino, terra di miti e leggende, in cui entrare in sintonia con una dimensione che prescinde da ciò che è materico e sospinge l'uomo in alto, verso una spiritualità nuova quanto antica.
Morano Calabro si scopre così, essere il baluardo di una civiltà che non si rassegna a svuotarsi di sé e porta l'uomo a riscoprirsi attraverso il racconto della propria storia e a procedere risollevato lungo il tortuoso percorso della vita, con quel rinato spirito di abbandono alla propria umiltà, l'unica possibilità di riscatto dalle spire di una società fatua e corruttibile. Un processo catartico si articola passo passo per tutto il film per nulla scontato, in cui l'anima trasborda dagli schemi razionali della fisicità, risorgendo con tutta la sua audace bellezza.
"Un uomo che ha deciso di farla finita e si suicida lascia sempre qualcosa in sospeso in questa vita - mi racconta il regista del film Renato Pagliuso con la stessa dolcezza che trapela dalla sua opera - bisogna ritornare e rimpossessarsi delle proprie radici, perché fuori c'è dispersione e smarrimento“.
Non è un caso infatti, che gli antichi borghi meridionali svuotati dal fenomeno dell'emigrazione stiano tornando a ripopolarsi, a testimonianza del fallimento di una economia che ha snaturato l'uomo orientandolo verso il dio denaro.
Regista Pagliuso, nonostante le difficoltà incontrate, continuerà a produrre film all'interno del circuito del cinema indipendente qui in Calabria?
“sicuramente, è una sfida che ho lanciato a me stesso. Come accade ai personaggi di 'Racconto calabrese' di bussare a tante porte fino a quando non trovano chi finalmente apre, anche io continuerò nel mio lavoro senza mollare.
'Racconto calabrese' è un film che ti cambia dentro, e mi rivolgo al primo attore Paolo Mauro. Mi parli della sua esperienza in questo film.
“Un'esperienza importante, sicuramente. C'è molto di mio in questo film. Il regista è lui - dice, indicandomi Pagliuso - ma tutti noi attori abbiamo contribuito affinché i messaggi bucassero lo schermo del cinema e arrivassero limpidi agli spettatori. C'era grande affiatamento all'interno del cast, un clima familiare e disteso”
che, aggiungo io, riflette il calore della gente calabra, quel senso di accoglienza che nella sua discrezione abbraccia chiunque entri in un profondo dialogo con la sua interiorità.