Ogni storia ha una conclusione a lieto o brutto fine. C'è una evoluzione all'interno dei romanzi che porta alla felicità oppure, alla presa di coscienza di errori fatti in precedenza e che in forma punitiva si riflettono sul destino. I romanzi romantici seguono uno schema preciso che si compie nella conclusione.
A differenza di quanto accade nel Novecento, dove gli stati della coscienza hanno la priorità sulle azioni stesse che definiscono la trama, nel Romanticismo la trama è il finito nell'infinito. Ciò non vuol dire che lo spessore dell'interiorità venga in secondo piano, tutt'altro! C'è una sorta di finalismo etico che si dipana tra le pagine e rivela il mondo conosciuto dell'animo umano, mondo estrapolato dall'autore in base alle necessità da lui selezionate.
L'infinito è sotto e sopra l'uomo. Lo circonda e lo pregna. Esiste un altro filo della narrazione che apre a nuovi sconfinati spazi che sono propri del lettore. La gioia o al contrario, l'amarezza che siglano la chiusura dell'opera camminano poi nell'altro assente dalle pagine ed è rappresentato proprio dall'animo del lettore. Lo scrittore è il maestro, colui che segna la strada sulla quale da solo s'incamminerà il lettore. Ciò non vuol dire scaricare la responsabilità del proprio dire su altri, ma rendere attivo il lettore in un progetto letterario che assume già dal concepimento uno spazio creativo simile al palcoscenico del teatro. Ecco perché, che si tratti di lirica o prosa, la narrativa ottocentesca trova la sua realizzazione visiva anche in teatro.
Nel Decadentismo invece, spesso i romanzi non sono sorretti da alcuna struttura narrativa che affondi nella visione del mondo contraddistinto da una significativa affabulazione fatta di concretezza. A emergere è il mondo disordinato della coscienza che porta ciò che è sommerso a venire a galla, richiamato da percezioni del mondo esterno e dal flusso della memoria. La struttura del mito si sfalda, riproponendo i soggetti in causa attraverso rivisitazioni. Il teatro si asciuga e si riduce a ciò che appare solo in forma di stretta metafora. Di conseguenza, più spoglia è la scena, più si universalizza il contenuto della rappresentazione, evidenziando le svariate chiavi di lettura. Il simbolo nella dissacrazione del soggetto diventa solo immagine temporale che ha bisogno della solitudine esistenziale del soggetto per essere trasposto su un piano superiore che aprirà non a soluzioni, perché già nella premeditazione non vi sono, ma ad affascinanti aperture sul mondo individuale del fruitore.