La vita è ciò che ci sfugge proprio mentre lo viviamo. Essere presenti equivale ad essere assenti e la morte è il sorriso della vita. È la rosa che ci invita sotto le sue spoglie di bellezza a cogliere e comprendere prima che tutto precipiti in vaghezza e nell'oblio.
La subitaneità è l'attimo della folgore che brucia all'istante quanto cercato e indagato, riappropriandosi dell'intelletto che cade cenere dinanzi alla rivelazione compiuta. Non c'è rivelazione che non abbia il riscatto dal compiuto in quanto diviso. La rivelazione ci risucchia e ci rende parte della comprensione totale del tutto che scatena ovviamente un'insostenibile sofferenza.
Quando non ne possiamo più, a corda tirata della sopportazione ultima, subentra la rottura. La corda si spezza e la trama di legami ci sospinge verso ciò che per lei non è o non lo era ancora. Il velo di Maya sarà oggetto d'indagine di Schopenahuer ma intanto nella fede cristiana ancora giovane del Medioevo viene superata dal simbolo della croce inscritta nella rosa.
La morte è volo, uscita dalla gabbia del tempo e questa vita è nulla in confronto a quella che ci aspetta oltre. Gesù crocifisso diviene un uccello che spiegate le ali entra nel mistero per noi incomprensibile e che dimora la casa del Padre. Da qui il simbolo della comunità monastica di Taizé fondata nel 1940 da Roger Schutz, Frére Roger. Dietro questo nuovo ordine c'è l'esperienza cappuccina medievale incentrata sul dolore quale tramite di salvezza e altresì, il simbolo della croce francescana a Tau.
La rosa che fiorisce sulla sommità dello stelo di spine è il sole allo zenit, l'ostia del celebrante sollevata durante la Consacrazione. È sulla base di questo il fiore capitale del Medioevo, che riassume l'ascesa dello scorpione o del serpente o del ragno alla massima sua compiutezza.
È bello quanto è compiuto. Il Medioevo fonda la sua esperienza estetica sulle ultime parole di Gesu in croce, prima di spirare. E la rosa aperta è il simbolo della compiutezza oltre cui l'uomo in questa vita non può allungarsi.
L'ostia nel Medioevo diventa mezzo di redenzione di tutti i simboli precristiani che in essa trovano risoluzione. Lo vediamo anche in rapporto alle rappresentazioni visive dei regni della Divina Commedia. La rosa è il Paradiso con la corona di beati che sorge sul cammino purgativo e spinoso del Purgatorio che spiega la raffigurazione a monte.
Al centro della redenzione e del corredo di simboli in rapporto ad essa c'è l'amore che ritroviamo nei due serpenti attorcigliati e nello scorpione che solleva la coda spinosa durante l'accoppiamento, evitando che l'aculeo trafigga l'altro. La posizione assunta in verticale da questi animali, espressioni del simbolismo ctonio, porta alla sconfitta delle tenebre e al trionfo della luce. Nel mondo egizio troviamo lo scorpione collegato all'immagine del fiore che in rapporto al sole è simbolo di riscatto dalle tenebre, meta a cui va incontro l'anima del faraone sulla sua barca tra le onde del cielo.
La rosa è la stella, il fiore del prato del cielo e la stella Polare. È il riferimento a Dio nel viaggio periglioso. Cielo e mare si appartengono e il mare è il riflesso della casa di Dio sulla terra affidata alla protezione della Madonna. Da qui il titolo di Stella Maris con cui ci si rivolge alla Vergine Santa insieme a quello di Rosa Mistica. Purtuttavia non esiste solo la rosa nella simbologia medievale. Le costellazioni sono bouquet di vari fiori che splendono ciascuna con una propria preziosa luminosità. Tra questi fiori ricordo il giglio bianco simbolo dell'unione amorosa tra uomo e donna e quindi di purezza, e l'iris che sarebbe per molti il vero giglio fiorentino, e ricorda come abbiamo già visto, la croce del mistico sospinto dalla fede e dalla preghiera verso il cielo.
Accostato al simbolo della stella a cinque punte troviamo il fiore myosothis Nontiscordardime che suggerisce il cammino dell'uomo impresso nella centralità di Dio. Il colore celeste rimanda al cielo a cui tende l'uomo che presta fede alla promessa rivolta a Dio. Il Nontiscordardime divenuto celebre con la canzone di Claudio Villa, è l'immagine della storia d'amore dell'uomo rivolto a sé stesso. Amare significa volgere lo sguardo a Dio e impedire che la seduzione della materialità ci porti al deragliamento. Altro insegnamento è che non si può amare il prossimo se non s'impara ad amare se stessi.