Anche quest'anno si è concluso il Festival di Sanremo. La kermesse canora che mette al centro dei riflettori in Europa e nel mondo l'Italia.
Ormai di canzone puramente italiana c'è rimasto ben poco, così come ben scarso è l'interesse rivolto alla canzone in sé. Sempre più immerso nei toni accesi del Carnevale, il Festival si appresta ad essere riconosciuto non più come Festival delle canzoni, bensì di esibizioni che spaziano dal serio al becero, intervallate da motivi cantati che ricordano sempre più le sigle degli spot pubblicitari. Il tasto della pubblicità sembra prendere sempre più peso e non solo riferito a quello riconosciuto da tempo e guidato dalle politiche consumistiche. Mi riferisco infatti, a una propaganda molto sottile che intende imporsi dall'aspetto più appariscente della moda a quello più vago ancora, ma già avvertibile, della scansione dei ritmi che contrassegnano il quotidiano di chi lavora e si rende responsabile di una famiglia oltre che della propria vita.
La tecnica dello svago non fa più trend e l'obiettivo di Sanremo è quello ormai di diventare faro di un nuovo modus vivendi al passo con i tempi. Il motivo guida è la frammentazione, non più la disintegrazione già accusata da più parti ideologiche e ormai digerita. Come portabandiera della kermesse ormai non più festival, notiamo bene, troviamo proprio la frammentazione che sta imponendo in modo telecomandato il nuovo stile di vita. Gli urlatori sul palco mirano a questo. Ed ecco dunque, l'alternanza rapida tra momenti che inviterebbero a urgenti riflessioni ad altri di mesto ricordo e ad altri ancora di stupido umorismo che non si capisce dove voglia andare a parare. E intanto la gente ride e ridendo sfoga le amarezze quotidiane, dimenticandosi così delle questioni drammatiche della nostra epoca. E va bene sì la sprovincializzazione, ma con Sanremo è ormai acclarato che in Italia non comandano più gli Italiani. Ed ecco quindi la rassegna scanzonata di imitazioni di look e quanto altro si rifaccia a lady Gaga e alle grandi star internazionali che sembrano guidare paradossalmente anche i look di ragazzi senza più la padronanza della loro mascolinità.
Un po' di tutto e niente e nessuno.
Di italiane restano le scimmiottate vagamente alla Pippo Baudo di Amadeus e soprattutto alla Benigni di Fiorello e lo scanzonamento di un certo intellettualismo ormai al tramonto e impersonato da una Teresa Mannino sempre più in linea con la oramai bruciata Littizzetto. La novità? L'assenza di Fedez e dei suoi cortigiani come Rosa Chemical e Achille Lauro. Ne siamo proprio sicuri? A Rosa Chemical e ad Achille Lauro si richiamavano i ritornelli di alcune canzoni in gara.
Come spesso accade, chi esce dalla porta rientra dalla finestra e Sanremo ne è la dimostrazione lampante. L'eco di Fedez c'era eccome! Nei tatuaggi che maculavano i corpi maschili senza più alcun richiamo erotico. Patinati e traslucidi e poi, nei ritmi orecchiabili anni Sessanta che vorrebbero richiamare alla rivoluzione in atto. Gli anni Sessanta sì, sono stati gli anni della ripresa economica e delle grandi conquiste sociali. Ma oggi? Lo sbrandellamento della canzone canonica cantutorale non più composta secondo i criteri classici di strofa e ritornello, ci fa ripiombare nel buio odierno in cui anche la canzone dalla parvenza seria viene ad essere ridicolizzata da uno schema strambo.
In tutta questa apparente rivoluzione perdono senso cantate e ballate come quella stile De André della Mannoia che con la sua Mariposa ha vinto l'altro premio della critica. Decisivo il suo slogan "Restiamo umani" che fa esultare le Sinistre imperialiste attuali. Ma è Carnevale e il Festival cade proprio a fagiolo. Così come a fagiolo in rapporto alle politiche alimentari rivoluzionarie è caduta la scenografia, ripetitiva da qualche anno e che nei suoi toni azzurri e nel camuffamento del gioco di luci ha riproposto la faccia di un insetto, forse di grillo, ripresa da vicino. Un invito ad abbandonare noi stessi anche tramite il cibo, oltreché con la musica, e a lasciarci andare sull'onda di un disorientamento collettivo.