Gli artisti, piu' della gente comune vivono intensamente le stagioni della vita.
Si formano tramite le prime esperienze nel tempo della primavera e si lasciano sedurre dalla giocosita' della luce che trascina e affama dando in pasto le illusioni. L'incanto si spegne d'un tratto e fioriscono i racconti. Parole, colori e musica traducono le esperienze fatte o attraversate, in verita' assolutizzata dai sentimenti che filtrano e plasmano come oggettive, farfalle di liberta'. Gli artisti vivono la ribellione alle convenzioni, creano raccogliendo gli umori del mondo che dentro di loro si personifica. L'artista e' solo, eppure porge il canto al muto, la vista al cieco e solleva il velo dalle cose. A volte lo fa calare, laddove non ci sia la bellezza calpestata dall'odio della gente.
Essere artisti a cavallo delle due guerre mondiali comportava un duplice ruolo: del funambolo che danza su precari equilibri e del pagliaccio che estrae il sorriso dal fango torbido delle strade. Questa ambivalenza, superficialmente intesa come ambiguita', ha dato un senso a un tempo tragico in cui l'amore fluiva come fumo dal suono dei grammofoni, aleggiando nelle fatue stanze di un'umanita' divisa tra ingiustizia, cupidigia e pregiudizi confusi con una cultura incapace di accettare scomode Verita'. L'immaturita' di una civilta' crea occasioni di sbizzarrimento nelle anime che celebrano il bello nella liberta'.
Henry Miller non sfugge a questa analisi. La sua profondita' e' recalcitrante a piegarsi agli stereotipi che vedono l'emancipazione femminile di sostegno all'immagine dell'uomo che confonde la virilita' con la violenza. Miller squarcia i veli dell'ipocrisia, la sua scrittura e' una lama che affonda nelle coscienze dell'epoca che mal interpreta il suo acuto sguardo. La dissoluzione di ogni schema prepara a una ridefinizione del mondo in cui l'uomo onesto, libero e autentico non trova piu' alcun referente a cui rivolgersi, ne' un angolo in cui raccogliersi nella vasta pianura di una mesta oggettivita'. Pertanto si ritira stanco e umiliato da un mondo che non risponde agli accenni di umanita'.
L'opera Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch di Henry Miller non rappresenta il resoconto di un esilio dal mondo, quanto l'esigenza di potersi ritrovare in una sorta di Eden lontano dai giochi di potere dell'uomo che ha vaniicato ogni espressione di autenticita'. La regione californiana del Big Sur gli offre l'opportunita' di meditere, lontano dai riflettori, sulla nuova civilta' improntata sulla speculazione tecnologica e al contempo, di vivere quei rapporti umani espressi con semplicita' che placano gli affanni e contribuiscono all'armonia collettiva che individualmente si riflette in ogni quieto vivere.