Pensiamo in immagini e raccontiamo attraverso le immagini. Noi siamo sostanza di immagini, un tessuto elaborato che partendo dall'autenticità del visto si trasforma in vissuto espresso a più livelli.

La trama del narratore è un viaggio raccontato per scene palpabili che convergono verso un'idea precisa che assumerà di volta in volta caratteri diversi, penetrando la corteccia del fruitore individuale. Nella scrittura colori e sfumature intangibili s'intrecciano al ritmo di una musica che si fa timbro sottile o macabro suono, incalzata dal vento del racconto. Se la musica richiede una conoscenza specifica, la giostra delle immagini respira una vita propria che sorge dagli animi nei quali prende forma.
Il narratore protagonista di questa intervista, con le doti di un perfetto equilibrista o di un alchimista sa unire sapientemente toni e sfumature divergenti sullo spartito di dialoghi e scene che sta al lettore acquisire e collocare. Narratore e ancor prima sceneggiatore, a mio avviso anche talentuoso fotografo, Tommaso Avati, figlio dell'illustre Pupi, sa rendersi avvincente sulla scacchiera di storie ben concertate e sorprendenti.

Dott. Avati, in lei si avverte una spinta innata verso l'espressività. Come nasce questa sua inclinazione?
Non credo che in generale serva un motivo ad una persona per decidere di essere espressivo, di svolgere un mestiere che coinvolga il più possibile la sua espressività e quindi la sua creatività. Anche se in realtà, forse, almeno nel mio caso, una ragione primigenia c’è, e mi sembra di poterla individuare nel fatto di essere affetto da sordità profonda e congenita. Avendo vissuto, negli della mia infanzia e prima adolescenza, senza l’aiuto di protesi acustiche e quindi in una sorta di bolla di vetro in cui il contatto col mondo esterno era limitato o comunque meno ricco che negli altri bambini, devo aver maturato una specie di “fame”, un bisogno e una necessità di esprimermi, di dire e di raccontarmi, forse superiori alla norma.
C'è un episodio particolare che l'ha richiamato verso la scrittura?
"No, non che ricordi. La scrittura è stata un processo lento, progressivo, faticoso. Una conquista che è iniziata quando ero ancora bambino e continua naturalmente ancora oggi. Ricordo però l’amore che iniziai a provare, fin da piccolissimo, per gli strumenti della scrittura. Per la macchina da scrivere di mio padre, prima di tutto, di cui amavo ogni cosa, i cui tasti avevano una sorta di potere magico, e che io dovevo imparare a padroneggiare, dovevo imparare a premerli con la sua stessa velocità e maestria. Come se si fosse trattato di un pianoforte."
Lei si esprime molto bene anche attraverso la fotografia. Si sente più scrittore o fotografo?
"Non sono un fotografo. Sono un amatore che si diletta ogni tanto a fare qualche scatto, di cui tra l’altro vedo tutti i grandi limiti. È solo un semplice divertimento, tutto qui, che non ha, ma solo per quel che mi riguarda, la sacralità dello scrivere. Ci sono naturalmente Fotografi capaci di trasmettere emozioni immense con la fotografia, al pari forse della letteratura. Ma so che non sarò mai in grado di raggiungere quei livelli."
Suo padre, il maestro Pupi Avati è un narratore nel cinema. Pensa che in qualche modo abbia influenzato positivamente le sue qualità?
Lui è stato certamente la persona che più di chiunque altra ha spinto perché facessi lo mestiere di scrittore (o meglio sceneggiatore). Mi ha sempre incoraggiato con grande energia e determinazione, anche nei momenti peggiori, anche quando avevo voglia di mollare tutto e fare tutt’altro.
La sua è una scrittura vera oltre che intensa. A volte tagliente per quanto è forte e al tempo stesso curata e lirica. Sembra un ossimoro quanto mi sono permessa di esprimere, che al suo interno ospita una percezione matura della realtà. È così?
"Nelle cose che scrivo ho sempre cercato di mantenere contemporaneamente due registri: quello leggero e quello profondo. Il primo per poter strappare una risata quando possibile, il secondo per fare riflettere. Credo che la Narrativa, quella alta, quella che a me piace leggere, non possa prescindere da questa formula, dal tenere presente, con la stessa devozione, questi due modi di intrattenere. Nel mio primo romanzo, Ogni Città Ha le Sue Nuvole, ho cercato di mettere in pratica questa piccola formula mantenendo un andamento che progredisse il più possibile su questi due binari: creare una situazione divertente, che facesse sorridere, per poi dare un colpo inatteso al lettore con qualcosa che lo facesse vacillare, riflettere, che lo riportasse alla cruda realtà. In Quasi Tre, il mio secondo romanzo, il registro è leggermente più spostato verso l’aspetto drammatico, soprattutto nella seconda parte del racconto, ma anche lì non sono riuscito, in certe situazioni, a non essere ironico, a non guardare ai miei personaggi con sguardo divertito, dissacrante. Credo insomma che non ci sia soddisfazione maggiore, da lettore, quando posso girare l’ultima pagina di un romanzo e sentire quel senso di gratitudine immensa per l’autore che nelle sue pagine è riuscito a farmi sia ridere che piangere. Cosa si può chiedere in più ad un’opera?"
Nel suo rapporto con gli altri lei si sente vero?
"Forse fin troppo, mi riesce in genere impossibile fingere, cercare di apparire diverso da quel che sono. E non lo dico come un vanto, come potrebbe sembrare, ma come un valore, come un handicap, un mio limite, poiché mi rendo conto che la società attuale, quella in cui viviamo tutti noi oggi, abbia bisogno in realtà di una certa, sana, dose di infingimenti, necessari, utili e produttivi ai fini di potere andare avanti e progredire. Io purtroppo non ne sono provvisto."
Si ritiene un malinconico sognatore?
"Sono un inguaribile malinconico cronico. Non riesco a guardare a qualcosa di bello o ad una persona che amo, senza dover contemporaneamente pensare al momento un cui mi saranno portate via… Il mio godimento di quella cosa o di quella persona è sempre diviso a metà, schizofrenico, perché deve fare i conti con la consapevolezza che nulla è per sempre…"
La Natura è per lei oggetto d'ispirazione nella scrittura?
"No, almeno per ora non mi è capitato di sentire il bisogno di ispirarmi alla natura."
C'è un paesaggio che le corrisponde in modo particolare?
"Scrivendo in larga parte in modo autobiografico, direi che quasi tutto quel che scrivo “mi corrisponde”.
Ma in realtà quando si scrive si è autobiografici sempre, anche quando si affrontano temi apparentemente distanti da noi.
In qualche modo infatti si riesce sempre ad infilare un po’ di se stessi in quel che si sta raccontando.
E in fondo è il segreto per imparare a scrivere: raccontare una storia accadutaci come se fosse accaduta a chiunque.
E raccontare una storia accaduta a chiunque come se fosse accaduta a noi…"
Si è sognatori, malati inguaribili di nostalgia verso quel Mistero profondo che ci rende unici e ci ammanta di luce ed ombra. La profondità è un dono innato che ci trasporta verso l'altro al di fuori e al tempo stesso presente in noi. Io e la Redazione ringraziamo Tommaso Avati per questa finestra concessaci sul suo mondo interiore a cui tutti attraverso le sue opere siamo ammessi ad apprezzare.